RAFFAELE PAOLUCCI DI VALMAGGIORE

Ann.Ital.Chir 1992;Vol. 63/6 – pag. 835-839
IL MONDO PERDUTO DI RAFFAELE PAOLUCCI di Vanni Beltrami
INTRODUZIONE di Nicola Picardi
RIEVOCAZIONE di Giorgio Di Matteo

INTRODUZIONE: Ricorre quest’anno il centenario della nascita del Prof. Raffaele Paolucci, che fu Ordinario di Clinica Chirurgica all’Università di Roma. Per iniziativa del Prof. Vanni Beltrami, Clinico Chirurgo dell’Università di Chieti, ha avuto luogo in terra d’Abruzzo una manifestazione celebrativa di questo anniversario: il 13 Novembre a Orsogna (Chieti), paese d’origine del Prof. Paolucci, ed il 14 Novembre a Chieti, nell’Aula Magna dell’Università «Gabriele D’Annunzio ». Chi ha avuto l’opportunità di parteciparvi ne ha tratto un’impressione profonda, acquisendo in un crescendo di sensazioni la certezza di assistere ad un evento indimenticabile e probabilmente irripetibile. Infatti cento anni costituiscono una scadenza emblematica delle età dell’uomo, e rappresentano molto spesso una data in cui ormai l’immagine tende ad essere appannata poiché la personalità celebrata è diventata ormai iconografica ed evanescente nel flusso della storia. È avvenuto invece l’imprevisto.

Nel pomeriggio del 13 novembre, dopo una suggestiva celebrazione eucaristica nel Parco della Rimembranza di Orsogna, resa particolarmente emozionante per la massiccia partecipazione di anziani veterani abruzzesi della Marina Militare Italiana, una serie di personalità ha preso la parola a vario titolo nella Chiesa di S. Rocco, rievocando fatti e gesta in testimonianza delle virtù di carattere, di vitalità, di impegno scientifico, chirurgico, militare e politico del Prof. Paolucci, in un crescendo probabilmente nemmeno previsto dagli organizzatori. La personalità di quest’uomo, certamente al di sopra della norma, ha quasi riacquistato la concretezza della vita e la vivacità delle azioni. L’attaccamento alla sua terra di origine ed al paese di Orsogna, dimostrata in ogni modo per tutta la vita, ha ricevuto così una testimonianza di piena corrispondenza e reciprocità nel ricordo dei suoi conterranei da far profonda impressione e commozione anche agli estranei.

Successivamente il 14 novembre, nello scenario soleggiato delle nevi che iniziavano ad imbiancare le vette del Gran Sasso e della Maiella, nel Rettorato dell’Università «Gabriele D’Annunzio», ha avuto luogo una seconda seduta celebrativa, questa volta di tono scientifico, ma di taglio del tutto originale. Convenuti da tutte le Università italiane si sono riuniti illustri professori di chirurgia collegati alla Scuola del Prof. Paolucci o per discendenza accademica diretta o per colleganza culturale ed ideale delle Scuole di provenienza: quasi tutti hanno preso la parola per ricordare, al di là dei numerosi contributi scientifici, le connessioni e le ragioni della colleganza, e per testimoniare non solo della personalità chirurgica e scientifica del Maestro, ma anche per ricordare fatti di vita e consuetudini nell’ambito del lavoro e dei rapporti personali. Talvolta i contributi sono stati brevi, altre volte più articolati ed emozionanti. Il risultato è stato quasi surreale e sorprendente per tutti: il prof. Raffaele Paolucci è apparso alla fine come vivo e presente nel consesso, prorompente e carismatico, come un festeggiato sorridente nell’abbraccio dei suoi estimatori.
In qualità di Direttore di questa Rivista, del cui Comitato Direttivo fece parte negli anni passati il prof. Paolucci, volgo al Maestro — che la mia età non ha consentito di conoscere che attraverso le testimonianze dell’ambiente in cui ho percorso la mia carriera universitaria — un pensiero di omaggio ed ammirazione, e accolgo il testo celebrativo del prof. Vanni Beltrami e quello rievocativo del prof. Giorgio Di Matteo, Clinico Chirurgo dell’Università di Roma e Presidente della Società Italiana di Chirurgia. A chiusura mi piace pubblicare l’immagine di un «albero genealogico» della discendenza accademica del Prof. Raffaele Paolucci.

IL MONDO PERDUTO DI RAFFAELE PAOLUCCI di Vanni Beltrami

Vi sono uomini cui la sorte sembra essere sempre favorevole: sono primi nel proprio campo, ma di essi si può dire che — qualsiasi altra scelta di vita avessero fatto — sarebbero stati comunque ripagati da uguale successo. Soltanto uno sguardo superficiale ed un pensiero riduttivo possono peraltro far ritenere che sia soltanto la cieca fortuna ad incoronare questi uomini: perché in realtà una osservazione attenta rivela che, dietro l’apparente fluidità degli eventi felici che li premiano, essi celano il carisma conferito loro da una volontà di ferro, da una grande fermezza ed austerità di intenti, da una viva intelligenza, da una preparazione lunga ed accurata. Sono quindi essi stessi che determinano di fatto la propria sorte, perché capaci di corrispondere alle elargizioni della «dea bendata» colpo su colpo e per tutta la vita, con disponibilità illimitata. Raffaele Paolucci di Valmaggiore apparteneva a questa razza di uomini. Ne sono testimonianza non soltanto i fatti della Sua via di soldato, di chirurgo e di cittadino devoto al Suo Paese, ma anche il ricordo che tutt’ora — a distanza di oltre trent’anni dalla Sua Scomparsa — è rimasto di Lui: sia nella memoria diretta di chi Lo ha conosciuto di persona, sia nella tradizione del suo Magistero chirurgico. A riprova di questo, ricorrendo quest’anno il centenario della nascita, è stato agevole riproporre in maniera ufficiale la personalità di Raffaele Paolucci nella Sua Orsogna e nel contesto accademico dell’Università d’Annunzio, in una manifestazione commemorativa con l’omaggio di tutti gli abruzzesi, della Marina Militare e degli antichi Allievi, unito a quello delle Scuole chirurgiche derivate dalla Sua e delle Università di tutta Italia.

La figura di Raffaele Paolucci fu complessa, anche se unitaria per stile e personalità.

Nato in un contesto di sana operosità abruzzese, al paese natale della famiglia rimase per tutta la vita profondamente legato. I ricordi maturati all’ombra del campanile di Orsona, qualche espressione dialettale, l’attenzione per ogni fatto — anche minore — che toccasse la Sua gente, potrebbero ben rappresentare quello che — nella Sua quotidianità — continuò sempre a rivelare quest’affezione viscerale ed indescrivibile. È alla luce di quest’affezione del resto che si possono comprendere gli anni di una militanza politica ostinata e spesso sofferta ma sempre intesa come «rappresentanza» della gente cui Egli sentiva di appartenere di diritto. Di questa affezione è massimamente rivelatore il testo autobiografico «II mio piccolo mondo perduto», che si inizia con le pagine sull’infanzia in Abruzzo e che vedrà una preziosa ristampa in quest’anno centenario. Durante la grande guerra, Paolucci fu dapprima bersagliere sul Carso, quindi passò al servizio sanitario della Regia Marina. Per Sua lunga insistenza, fu associato al Comandante Rossetti, tecnico geniale ed inventore del prototipo di quei piccoli mezzi che — ancora nel 1940 — furono usati per azioni subacquee di attacco di navi nemiche alla fonda. Dopo lungo allenamento nella laguna veneta, in una notte d’inverno, i due penetrarono a nuoto nella base navale austriaca di Fola ed arditamente agganciarono l’esplosivo alla corazzata ammiraglia austriaca «Virus Unitis». Il loro gesto appartiene alla storia.
Raffaele Paolucci divenne quindi Conte di Valmaggiore per un’azione di una qualità assai poco comune in questo ultimo secolo, che ha visto l’individualità rarefarsi in ogni campo, compreso quello militare: fu quindi una nobiltà «di spada » la Sua, la più frequente in tempi andati e comunque la più ambita nell’albo dell’aristocrazia Imperiale (quella «bianca») e Sabauda (quella «blu»).

La Marina Italiana conosce da sempre — più di ogni altra — l’onore delle imprese del genere di quella compiuta da Paolucci e Rossetti nel 1918: il Comandante Rizzo, il Comandante Durand de la Penne ed altri furono della stessa stoffa, compirono azioni affini nella tecnica e soprattutto nell’audacia personale. Ma Paolucci non era soldato nel senso più stretto della parola, era in fondo prima di tutto medico e patriota: il Suo combattere a Cima Undici prima, il Suo perseguire con tenacia l’azione di Fola dopo appartengono dunque a quegli aspetti di programmazione ostinata che ne facevano un «personaggio», più incisivo di tanti altri personaggi.

Il ritorno sulla strada della medicina non dovette essere semplice: il ruolo di eroe — una volta acquisito — è facile ma non facilmente rinunciabile, quando lo si è così totalmente meritato e quando si sono appena compiuti i ventisette anni. Nel 1919 Paolucci lasciò la divisa e le acclamazioni alla sua medaglia d’oro ed entrò in un laboratorio dell’Università di Siena: dieci anni dopo sarebbe salito su un treno che lo avrebbe portato — vincitore di concorso — alla Sua prima Cattedra di Chirurgia, a Parma. Qui dieci anni hanno una loro storia autonoma, nel quadro generale della vita del Professore — ormai dovrò parlarne con questo titolo —: storia fatta ricerca biologica e di applicazione chimica; di osservazione del lavoro altrui e di apprendimento «in proprio» nell’ospedale di Lanciano; di fatti pubblici legati alla Sua terra — l’elezione a deputato — e privati di grande intensità emotiva — il matrimonio e la paternità; di inizio ufficiale infine della carriera accademica, con l’Incarico nel 1927 all’Università di Bari.

Il treno che portava nel 1929 a Parma il giovane Ordinario di Cllnica Chirurgica Generale e Terapia Chirurgica chiudeva e chiosava un decennio che aveva permesso a Raffaele Paolucci di restare fedele alla Sua vocazione accademica ed insieme di essere rappresentante in Parlamento di quelle «genti d’Abruzzo» che amava sopra ogni cosa. Ma Egli aveva intanto riservato una parte di vita al Suo «privato» famigliare ed aveva anche stabilito con il Suo Re quel preciso, quasi feudale legame che sarebbe durato fino alla morte. Soltanto leggendo in questa chiave la Sua attività politica si può del resto comprendere il Suo essere personaggio pubblico anche sotto il regime del tempo.

Da Parma passò a Bologna e da Bologna a Roma, dove giunse alla «Sapienza» nel 1938, dopo nove anni di lavoro duro e denso di successi morali e tecnici anche a livello internazionale. L’autonomia di giudizio che Gli fece onorare pubblicamente l’antifascista Nigrisoli, cui succedeva; il primo intervento sul polmone in Italia — uno dei primi al mondo — nel 1935; le Cattedre ottenute dagli Allievi delle prime ore — Trincas e Tinozzi — cui sarebbero seguite quelle di Ruggieri e Tosatti; le decine di pubblicazioni, gli studi, i progressi nella ricerca e nella didattica: sono le tappe di quegli anni. Poi, nel 1940, guardata da Lui con preveggente timore, la tragedia della guerra. Ed il Professore sarebbe uscito da quella tragedia di tutto il Paese con una personale tragedia — la temporanea sospensione dall’insegnamento, cui furono peraltro opposti con grande energia la completa solidarietà, l’affetto, la stima dei Suoi illustri colleghi dell’epoca: a cui Egli stesso oppose la forza morale che sempre Lo aveva sorretto. A quella forza dopo breve tempo doveva di nuovo fare ricorso nel grave lutto — la perdita della moglie — che Lo colpì e che fece di quella stagione la più dura della Sua vita.

Negli anni cinquanta, — durante i quali lo stesso che qui scrivo fui Suo allievo e collaboratore, — era tornato al Suo magistero, alla Sua autorità accademica e chirurgica, alla Sua rappresentanza politica, alla Sua fedeltà al Re ed all’Abruzzo, con intatto cristallino entusiasmo. Ma forse la parola «intatto» non dovrebbe essere usata. Il Raffaele Paolucci giunto ai sessant’anni conservava tutte le risorse intellettuali, la straordinaria capacità di insegnare, la tecnica perfetta dell’operatore elegante, la generosità dell’impegno «contro-corrente»: ma qualcosa dentro di Lui era rimasto incrinato dalle vicende pubbliche e personali degli anni quaranta. Carlo Delcroix, che lo conosceva assai bene e Gli era amico, ebbe a dire dopo la Sua scomparsa che «i termini della scienza non possono sostituire quelli dell’uso comune,
dovuti alla più antica delle esperienze»: e che Paolucci «era morto di crepacuore… perché né successi né soddisfazioni personali potevano diminuire la Sua tristezza, per la sciagura della patria e per l’indifferenza nuova di un popolo fatto estraneo a se stesso».

Qui di nuovo può essere di guida per capire il travaglio del Professore il Suo libro di ricordi, già nel titolo da Lui scelto: «II mio piccolo mondo perduto». Un titolo che racchiude la malinconia ed il rimpianto per un passato pubblico e privato che più non trovava equivalenti affettivi in un estraneo presente. Se ne potrebbe oggi dedurre che Paolucci fosse in tutto e per tutto un «uomo d’altri tempi». Lo era certo quanto a formazione, sentimenti, fede, convinzioni, onestà morale; non lo era sicuramente come Chirurgo, Accademico, rappresentante parlamentare, Maestro ed amico. Quando morì — serenamente cosciente pur nella quasi subitaneità dell’evento — lasciò in eredità all’Università italiana un folto gruppo di Allievi già in Cattedra, che a loro volta avrebbero trasmesso ad altri il Suo messaggio: ed anche un piccolo numero di collaboratori della Clinica Chirurgica di Roma che solo a fatica — dopo quella perdita — riuscirono a trovare i parametri di una vita professionale e — in qualche caso — anche accademica. Oggi, coloro che possono vantare nel loro «albero genealogico» di Professori Ordinar! di Chirurgia una discendenza da Raffaele Paolucci sono oltre quaranta: e sia consentito a chi scrive di annoverarsi con orgoglio fra di essi.

Disse una volta uno di questi eredi spirituali del Maestro allievo del Ruggieri, a suo tempo per volere di Paolucci divenuto Clinico Chirurgo a Napoli — che le Scuole universitarie sono fatte di uomini legati fra loro da un invisibile filo di tradizione, competenze, affettività, comunioni impalpabili: un filo rosso che, seguito persistentemente dall’uno all’altro, fin dagli allievi degli allievi, porta al Comune Maestro.

RIEVOCAZIONE DI RAFFAELE PAOLUCCI

Si perde ormai la memoria di fatti e di individui, nel frenetico ricambio, anche culturale, che caratterizza l’attualità, in una specie di consumismo delle nozioni, negatore delle tradizioni e delle memorie, per cui si getta quello che sembra non più Utilizzabile ed attuale a favore di altre nozioni, anch’esse precarie, che durano l’indispensabile, cioè poco. Salvo il caso degli eponimi si è persa la cultura dei nomi, dei personaggi, della loro vita, delle loro azioni, delle loro presenze, del significato delle loro espressioni. I libri dì Storia SOnO tematici e non infrequentemente distorti, i quaderni di cronaca non esistono più. Ne consegue la scomparsa dello studio sulle origini, sulle scelte, sui risultati per cui i protagonisti, anche del recente passato, hanno caratterizzato nella chinirgia, così come in altre discipline, tematiche, epoche e sedi.

A noi piace, invece, risalire alle origini.
Paolucci era stato anche un eroe della guerra (quella «grande », del ’15-’18) ma ormai di eroi non c’è più bisogno e il termine stesso tende conseguentemente a vanificarsi nel lessico; era stato anche un politico ma, ahimè, avendo agito come tale oltre, che nell’immediato dopoguerra, anche nel «ventennio», sia pure, durante questo, in maniera smorzata e spesso in atteggiamento di ferma protesta, era omologato ai fascisti. Quanti ragazzi sanno oggi dell’azione di Fola con l’affondamento della Viribus Unitis (le cui àncore — ma chi ne è informato? — limitano l’ingresso del Ministero della Marina) e della durissima preparazione fisica e tecnica che fu necessaria, quanti chirurghi ricordano l’impulso originale e determinante che negli anni trenta (!) Paolucci diede alla chirurgia toracica, quanti sono al corrente dei suoi pionieristici interventi sul cuore, quanti hanno nozione diretta delle innumeri espressioni tecniche in tutti i campi della chirurgia, sul collo, sull’addome, sul torace, sullo stesso contenuto endocranico che hanno formato generazioni di chirurghi che a loro volta le hanno trasmesse ad altre, perdendosi, nei passaggi generazionali e di luogo, il nome e l’opera dell’ideatore e del tecnico eccezionale che le aveva realizzate? Inventava nuovi strumenti chirurgici, studiava, almeno per l’epoca, le più ampie demolizioni, era già interessato alle questioni delle ricostruzioni funzionali. Ed era un professore, di stampo, incline e dedito all’insegnamento (la sua oratoria era originale e affascinante), stimolatore della ricerca in campo chirurgico; era un accademico serio, ascoltato nelle facoltà di allora fatte di pochi, ma fondamentali personaggi. Era anche capace di grande umiltà, come tutti quelli che esercitano un potere generoso: nei primi tempi del suo insegnamento a Roma usava andare negli ospedali per osservare le tecniche e i procedimenti seguiti da molti valenti chirurghi ospedalieri dell’epoca senza téma di commenti speculativi. Nei tempi non ancora maturi della sua carriera usava invitare a Parma e a Bologna, dove fu clinico, ma perfino nei tempi romani (ricordo, nel 1950, Francois D’Allaines) colleghi stranieri che, sul campo, cioè in sala operatoria, gli mostrassero le doti e gli aspetti della loro esperienza. Questa esperienza la passava al filtro della sua originale riflessione per elaborarla ed eventualmente volgerla al vantaggio dei suoi malati. Questi erano romani, ma venivano, ancora più che adesso, da tante altre parti d’Italia, specialmente dal suo Abruzzo, ed erano di variate estrazioni, dal più umile al più potente. Per tutti c’era il conforto del suo interesse, il personale intervento (operava tutti i giorni e la domenica faceva la visita nei reparti), il colloquio chiaro e confidenziale con il malato. Aveva anche una florida attività privata ma per molti pazienti in casa di cura non scattava la richiesta di onorario perché egli considerava con grande generosità un mondo vasto di conoscenze e di amici (e di abruzzesi!) nei confronti dei quali, ancor più che per gli altri, non concepiva interesse di sorta. In effetti morì non particolarmente ricco, se non di valenze intcriori; morì come turbato dall’incalzare dei tempi che avevano resi precari quei valori sui quali si era sempre fondato tanto da rievocare in un libro appassionato il suo «piccolo mondo perduto». Scriveva bene ma parlava ancora meglio. Era un oratore di forte accento dannunziano ma solidamente temprato dal realismo della sua vocazione chirurgica. Aveva uno sguardo metallico ed imperioso ma al tempo stesso dolce e convincente, un gesto essenziale, un limpido comportamento. Con noi molto giovani usava il suo fascino per indurci al lavoro e alla comprensione etica della chirurgia. Credo che in alcuni anni di permanenza nella Clinica Chirurgica di Roma 10 abbia potuto parlargli di me e delle mie questioni soltanto tre o quattro volte. Ebbene, quelle poche volte (e quanto brevemente si parlava con lui!) diede risposte e disse cose essenziali per la mia vita di chirurgo, per la mia carriera, per il mio animo trepidante e un po’ primitivo di provinciale al seguito e al cospetto del Maestro delineando, per quanto fu nelle sue possibilità, la natura e i tempi della mia formazione chirurgica e accademica. Molti anni prima, poco più che bambino, ero stato da lui visitato per non so quale malattia a Bologna, dove dirigeva la Clinica Chirurgica dell’Università. Aveva rassicurato i miei genitori e, al commiato, mi domandò che cosa avessi voluto fare «da grande». Io gli risposi: naturalmente il chirurgo. Sorrise, forse compiaciuto, ma, con amarezza, mi raccomandò, se l’avessi fatto, di non «affondare mai una corazzata ». Era quello il tempo in cui si metteva sul conto del suo successo di chirurgo principalmente il merito acquisito con l’affondamento della Viribus Unitis: e non era vero. Era vero 11 contrario: che la parentesi giovanile ed eroica si era rapidamente conclusa e l’ardente patriota medico dalla vitalità impaziente aveva cercato l’esplorazione scientifica e poi, in un crescendo di naturali aspirazioni congeniali alla sua predisposizione e vocazione specifica, aveva imboccato la strada della chirurgia universitaria. E la vocazione, la capacità, l’impegno avevano trovato il successo accademico e professionale a misura delle qualità e dell’intelligenza dell’Uomo.

Il padre di Raffaele Paolucci era stato il terzultimo di sedici figli nati dal nonno Raffaele e da sua moglie Concetta Andreola in Orsogna. La gente Paolucci era abruzzese da generazioni. Un suo zio, Gaetano, divenne professore di Clinica Medica e deputato al Parlamento. Il padre del Nostro, Nicola, fu ufficiale di marina e sposò, nel 1889, Rachele de Crecchie di Lanciano, la cui madre era una Parlatore di Orsogna. Raffaele nasceva a Roma, in Via Coito, il 1° Giugno 1892. Villeggiava da giovane in Abruzzo, tra Orsogna, Francavilla, Lanciano e Mosciano Santangelo. Ebbe studi classici e fece l’università a Napoli. Fu «medichetto » dei bersaglieri, sottotenente medico dell’armata navale, affondatore a Pola. Egli concepisce l’impresa, si addestra a torpedini, a portolani e a piombi, piova a lungo nella stagione fredda l’estenuante immersione e il nuoto per spingere una botte esplosiva sperimentale. Insiste con le autorità per sostenere il suo piano, ed infine, insieme all’ingegner Rossetti, s’imbarca su una torpediniera, diretto a Pola, procede quindi con il congegno, penetra all’interno del porto superando le ostruzioni nemiche, mina e fa saltare in aria la superdreadnought Viribus Unitis.

Poi ha una breve sorte politica, indotta dai suoi forti sentimenti patriottici, ma presto si pone fermamente l’alternativa, se la vita politica o l’assoluta dedizione chirurgica e accademica. Si risolve per questa, seguendo il forte richiamo della sua natura e della volontà di impegno civile e sociale. Era già stato nella Clinica Chirurgica di Napoli, diretta da Giovanni Pascale, poi, per breve tempo, a Siena, nell’Istituto di Igiene di Donato Ottolenghi. Tra il 1925 e il 1929 svolse intensa attività operatoria nell’Ospedale di Lanciano, che aveva personalmente attrezzato con grande fervore. Contemporaneamente, per cinque anni, esercitava attività didattica e scientifica quale patologo chirurgo incaricato all’Universitàa dì Bari. Nel 1929 viene chiamato come professore di ruolo alla Clinica Chirurgica di Parma; nel 1932 alla Clinica Chirurgica di Bologna dove, proludendo, in disprezzo alle indicazioni politiche, acclama maestro Bartolo Nigrisoli, già primario della stessa cattedra di Clinica Chirurgica, che si era rifiutato di prestare il giuramento imposto dal fascismo. In occasione della guerra d’Africa costituisce, organizza e personalmente guida, insieme a gran parte dei suoi allievi ed infermieri, l’Ambulanza Chirurgica Speciale che si trasferisce sui campi di battaglia per tutta la durata della campagna, realizzando un contributo eccezionale di assistenza in guerra, qualificata e moderna. In Africa lo raggiunge, nelle vesti di crocerossina volontaria, la moglie Margherita Pollio, di «tenace virtù e di dedizione suprema» — come la descrive il Professore — che gli rimane legata dal 1928 fino alla morte, nel 1947 avendogli dato l’unica figlia, Nicoletta.

Il novembre 1938 è l’anno dell’arrivo a Roma, in Clinica Chirurgica, dove Paolocci succede ad Alessandri. Da quel momento la carriera accademica al culmine, l’assoluta maturità chirurgica, la fama nazionale ed internazionale si confondono con vicissitudini famigliar! e personali in un periodo di grande amarezza esistenziale: nelle fasi finali della guerra e nell’immediato dopoguerra muore l’adorata Margherita, Egli stesso viene sospeso per un certo periodo ‘di tempo dall’insegnamento universitario su motivazioni politiche, a Orsogna «tutto è distrutto», la casa di Roma è bombardata. Poi, man mano, si risolvono le ombre, si raccolgono i sentimenti, le assenze famigliari si fanno meno vivide — ma intristiscono più profondamente — si riprende il cammino sulla via della concentrazione intellettuale, del valore del lavoro, del progresso accademico e dei sentimenti sociali.

Noi lo ricordiamo così, il Professore: Uomo di Vitalià e generosità coinvolgimenti nella professione, nel privato e nella vita civile, dai quali ha saputo trarre forza ma anche ha derivato pericoli e delusioni; uomo di tenace perseveranza e di commovente fedeltà a quei valori affatto eccessivi e rumorosi cui sarebbe ora che tornassimo pur in chiave moderna; chirurgo di passione divorante, inserito nelle coordinate fondamentali della storia della chirurgia; ricercatore e accademico pacato, al riparo dai patologici tormenti dell’intelligenza e dello studio.

Non avrei mai immaginato, più di quarant’anni fa, quando fui ammesso alla Sua Scuola come studente interno, di dover rappresentare, in questa celebrazione centenaria della nascita, gli Allievi e la Società Italiana di Chirurgia di Cui Egli fu presidente dal 1940 al 1946 e nel biennio 1951-1952. Con il tempo le coscienze e le esperienze maturano e si formano personalità compiute là dove c’erano trepidazione e incertezza: ma in questo momento mi accosto alla personalità del Professore, ricordandola, con la stessa inquietudine fatta di ammirazione e deferenza con cui sempre a Lui vivo mi sono accostato.