LUIGI GALLONE

Ann.Ital.Chir 1995;Vol. 66/5 – pag. 737-740
Ricordo di Walter Montorsi

Tra gli allievi di Papere e di Redaelli, i Maestri dell’Anatomia Patologica della Università di Milano nell’immediato dopo guerra, c’era anche un giovane dotato di una straordinaria intelligenza e di una facondia scopiettante, fresca e precisa che si diceva volesse passare dalla biologia alla clinica: si chiamava Luigi Gallone. È questo il primo ricordo che ho di lui, essendo arrivato da Modena nel 1947. Gallone attraversava veloce e scattante la via Francesco Sforza, cioè il vecchio Naviglio che era stato da poco riempito di sabbia e di macerie delle case distrutte dai bombardamenti americani e trasformato allora in strada. Divideva la vecchia sede dell’Ospedale Maggiore, ora Università Statale, dalla sede attuale dell’Ospedale Policlinico; al Padiglione Zonda, Gallone andava a raccogliere i pezzi operatori di Gian Maria Fasiani, un «mito» della Chirurgia Italiana di allora. Gentile nell’aspetto e nel comportamento, gli occhi azzurri che divoravano ammaliando ogni tipo di donna che incontrava, il sorriso perennemente pieno di una gioia di vivere e di lavorare infinita, il passo del tutto caratteristico che faceva allora pensare quasi a quello del «molleggiato di oggi», vestito sempre in grigio, Luigi Gallone era intermediario ufficiale tra Redaelli e Fasiani sopratutto per quanto riguardava la patologia di interesse neurochirurgico, la nuova disciplina che Fasiani stava introducendo da pionere in Italia. Tutto era allora «novità» nel campo neurochirurgico: la diagnostica quasi rudimentale che portava all’indicazione sempre avventurosa di «aprire o no» un cranio o un canale midollare; la manualità e la tecnica neurochirurgica stessa che si affinavano di giorno in giorno, di intervento in intervento con l’aumentare della casistica e della esperienza; i risultati, i primi risultati che qualcuno allora definiva, riferendosi soprattutto ai gravi traumatizzati della testa operati, come una nuova «cipresso terapia»; gli aspetti istopatologici del tutto nuovi anche perche il materiale era prelevato forse per le prime volte dal vivo. Gallone era addetto ed era il responsabile in primis di questo studio : ogni pezzo era motivo di appassionate riflessioni e di reperti interpretativi quasi divinatori tanto era ancora poco studiata questa patologia, la sua solerzia e l’interesse anzi l’accanimento che dimostrava allo studio del malato neurochirurgico aveva colpito Fasiani, che ne gradì la collaborazione, la manrenne, anzi la rinforzò nel tempo. Lo invitò presto ad essergli più vicino e ne fece un ingranaggio, una parte umana fondamentale nel meraviglioso meccanismo che egli andava creando al Policlinico col gruppo di lavoro, ora si dice così, della nuova neurochirurgica: Quarti, Morello, Venzoni, Columella, Mauri, Nicola e tanti altri ancora. Il giovane Gallone si fece prendere dal senso e dallo spirito avventuroso del gioco creativo di Fasiani tanto da prendere presto, di fatto, «stanza stabile» in Clinica Chirurgica, al Padiglione Zonda. Faceva ed era diventato l’istologo personale di Fasiani, ma non disdegnava la speranza di diventare un chirurgo. Ormai entrato nel cuore e nella stima del suo nuovo Maestro, gironzolava sorridente per i laboratori dello Zonda mentre cominciava a percorrere i primi passi della chirurgia generale. Potei apprezzare la sua arte magica di parlare quando come segretario dell’Accademia Medica Lombarda, presidente il Prof. Emilie Trabucchi farmacologo di Milano, organizzai nella nostra città la prima trasmissione televisiva pubblica di interventi chirurgici sponsorizzata dalla Squibb. Trasmettemmo un intervento chirurgico per gozzo, operatore Guido Oselladore, una plastica per labbro leporino ed un rifacimento di un naso, operatore Gustavo Sanvenero Rosselli, un parto cesareo, operatore Vercesi, un interevento di meningioraa, operatore lo stesso Gian Maria Fasiani. Il commento orale era di Gallone: furono 6 ore continue di trasmissione, in gran parte legate ai tempi morti che richiedeva l’emostasi che allora si faceva mettendo dei cotonini imbevuti di acqua calda, lasciati 5 minuti ogni volta al contatto del sanguinamento. Tempi morti lunghissimi per la totale assenza di movimenti chirurgici: il compito del commento affidato a Gallone si rilevò subito per questo ingrato. Il quadro televisivo era ossessivamente quasi immobile; si sentiva solo la richiesta di Fasiani di «cotonino, lavaggio, spatolina, sta fermo», mentre le mani del chirurgo esploravano delicatamente la massa celebrale e inziavano un cauto isolamento del tumore.

La descrizione orale di Gallone fu continua, brillantissima, ineccepibile e galvanizzante, non ci fu una pausa né alcuna incertezza. Fu tutto così gradevole da cancellare nelle centinaia di video-telespettatori la nozione delle ore che passavano. Uno spettacolo ed un ricordo incancellabile, un esame superato con 30 e lode. Memorabile credo sia restata nella mente e nd ricordo dei chirurghi italiani la partecipazione sua, accanto al Maestro Fasiani, alla giornata dedicata ai trapianti a Venezia e quella, in altra sede ed in anni successivi, dedicata ai traumatizzati cranici; le sue relazioni ad entrambi questi congressi della Società Italiana di Chirurgia furono considerati classiche, degne di elogio generale. Fu in quelle due occasioni che Gallone conquistò il riconoscimento di «maturo» per una Cattedra di Chirurgia, Cattedra che venne poi in seguito, qualche anno dopo la delusione cocente che sancì il mancato successo nella carriera universitatria della Scuola di Fasiani, in particolare del suo grande amico Benedetto Austoni, bruciato sul filo del traguardo del concorso da Armando Trivellini. Battuta di arresto, nella storia della Scuola, che non cessò mai di deprecare, spesso con parole forti anzi fortissime. Tornato finalmente nel concorso di cllnica chirurgica di Sassari vinto da Cevese, Barresi e da lui, fu chiamato ad insegnare a Siena. Ricordo ancora come tanti amici il giorno della sua prolusione, a Siena, che era abbinata a quella di un altro grande allievo della Scuola medica milanese, Cesare Bartorelli; ricordo ancora l’armonia di quella lezione, il torrente e l’impeto delle parole, la profonda dottrina della trattazione, la felicità che sprizzava da tutta la sua persona, l’emozione del Maestro, rosso in viso ed acceso, quasi premonitore della sua ormai imminente e fatale malattia. C’erano tutti i «milanesi di Siena», in testa Paolo Mantegazza; c’era tutta la baronia chirurgica italiana, c’era Guido Oselladore, che era stato il primo allievo di Fasiani chiamato da lui quale patologo chirurgo a Milano nel 1949; c’era in prima fila il Prof. Giulio Cesare Pupilli, Maestro di Fisiologia di Bartorelli ed allora potentissimo membro del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione, c’era anche il suo caro, anzi carissimo amico Stefano Markovits, che aveva fatto coppia fissa con lui nell’equipe chirurgica dello Zonda, nella quale Gallone si era fatta la prima esperienza di chirurgo. C’era anche la cara Selene, sua moglie, la sua musa, la sua «luna», il suo ultimo e grandissimo amore. Quando da Siena fu chiamato a ricoprire la Cattedra di Patologia Chirurgica di Milano, non c’era una struttura libera per questa disciplina: la forza degli affetti e della stima generale che già godeva, il ricordo dei suoi meriti scientifici, la sua brillante carriera a Siena, lo avevano portato da tempo all’attenzione della Facoltà Medica; il ricordo e la tradizione della Scuola di Fasiani gli garantivano i voti sufficenti per una sua chiamata, ma non si trovava e nessuno era disposto a cedergli una struttura.Tre suoi amici fraterni, Donatelli il cardiochirurgo, Fossati il grande radiologo ed Austoni, il chirurgo, tre primari all’Ospedale Maggiore «Cà Granda», si fecero promotori con me di una idea allora pazzesca: trasformare la Divisione di Chirurgia Plastica, restata senza capo servizio per il pensionamento del Prof. Clerici Bagozzi, in una Divisione di Chirurgia Generale e dimazzarla per ospitare proprio Gallone. Nella mia veste di consigliere dell’Ente Ospedale Maggiore feci mia questa proposta, ne trattai nella sede competente i termini pratici; mi riuscì di presentarla poi in maniera convincente al Consiglio di Amministrazione che l’approvò. La sua prima sede milanese di patologo chirurgico fu dunque quella, anomala, di Niguarda. Da li, scomparso all’improvviso il Prof. Armando Trivellini, fu trasferito da Niguarda al Padiglione Monteggia come primo clinico chirurgo. La tradizione di chirurgia digestiva del Padiglione Monteggia, che si era concretizzata ed affermata fin dai tempi di Oselladore con un chiaro allargamento applicativo anche per la chirurgia toracica, tradizione che era stata continuata anche dal Prof. Trivellini grazie alla disponibilità specialistica per la chirurgia toracica di Giorgio Vincre, fu ripresa e semplificata da Luigi Gallone, che dedicò così un’attenzione preponderante alla chirurgia dell’apparato digerente. Esuberante nei rapporti con il mondo femminile, sposato più volte, padre prolifico, amatore appassionato e di successo, era uomo dal grande fascino sulle signore, incantate dalle sue parole maliarde e dalle sue attenzioni straordinarie. Un bel giorno conobbe però Selene e fu lui ad essere incastrato, per sempre. Gallone si era definito più volte «un uomo di battaglia, nel lavoro come in amore».

Gallone era solito ripetere davvero che era un uomo di battaglia, che era un uomo libero, che era entrato a far lezione sotto scorta della polizia, mentre altri rinunciavano a tenerle perché studenti o supposti tali tiravano le molotov. Era venuto alle mani anche con suoi awersari: si definiva infatti «impetuoso, energico, vendicativo e rompiscatole». E di questo ne fa fede anche un episodio che ho vissuto con lui e che abbiamo ricordato più volte insieme, concludendo questo ricordo con l’ammissione che se fosse necessario lo avremo rifatto. Eravamo nel clima della dura contestazione del 1968; per la precisione era la mattina del primo sciopero generale degli ospedali con il blocco totale da parte degli scioperanti di ogni ingresso. Era stato preannunciato che lo sciopero sarebbe stato duro, anzi durissimo; un vero blocco «totale» dato che nessuno sarebbe potuto entrare in Ospeale ad eccezione di un medico per Padiglione .Ci trovammo insieme, alle 8 di quella mattinaci due ingressi di Francesco Sforza, 35: gli occupanti erano attanagliati in barriera umana con braccia allacciate, a catena, così da non lasciar passare anima viva. Gli scambi di parole e di improperi diventarono subito incandescenti. Gallone ed io eravamo furiosi: Gallone lo era perché voleva andare a vivere quella giornata con i suoi operati, io perché volevo entrare a testimoniare che almeno un membro del Consiglio di Amministrazione era presente nella bolgia e nella mischia, nonostante che si consigliasse da ogni parte prudenza. Ci guardammo negli occhi, ci ricordammo a vicenda che avevamo fatto entrambi la resistenza, che ci consideravamo entrambi laici ed uomini liberi; decidemmo di entrare «comunque » tentando un improbabile sfondamento, Gallone da Via Francesco Sforza, 35 ed io dall’ingresso accanto all’accetazione, 20 metri uno dall’altro. E ormai oggetto di ricordi e di commenti la furia di Gallone alle prese con chi gli impediva con la violenza fisica di entrare, così come sono note le varie lesioni nasali prodotte dai suoi pugni e dalle sue reazioni; così è soggetto di ricordo e di commenti salaci il mio reiterato tentativo di sfondare lo sbarramento umano grazie alla spinta del mio peso, un quintale circa all’ora che cercavo di raddoppiare con una breve rincorsa. La elasticità e la solidità della catena umana di sbarramento mi respinsero ogni volta a ruzzoloni sul selciato, di fronte alla folla festante ed urlante. «Siete tutti testimoni che il consigliere Montorsi ci sta aggredendo» urlò la passionarla di turno mentre gli scioperanti ridevano di me, sbattuto platealmente e ripetutamente sul lastricato dell’ingresso, reso impotente e ridicolizzato dalla forza degli altri. Quando, mezz’ora dopo, il mio Presidente riuscì a parlare per telefono con il Ministro degli Interni a Roma, al quale espose la difficilissima situazione del nostro Ospedale bloccato nella sua stessa assistenza, la risposta deJ Ministro si concretizzò in una domanda tipicamente romana: «c’è già il morto? E solo con un morto che posso dare ordine alla polizia di far sgomberare gli ingressi». Il Presidente, Gallone ed io capimmo che il momento della riscossa non era ancora maturo e che si poteva quindi andare a casa, lui dalla sua Selene ed io dalla mia toletta. La giustificazione c’era, e molto valida: quella di non mettere nei guai l’ineffabile e coraggioso Ministro degli Interni di allora! Sul lavoro, cioè con i suoi malati ed in sala operatoria, Gallone pagava la sua assiduita e la sua dedizione al malato con prestazioni totali che non tenevano conto dei giorni, sia che fossero quelli classici lavorativi infrasettimanali, sia che fossero le giornate festive, la domenica, Pasqua o Natale. Nella vita accademica si mostrò sempre un aristocratico, con un relativo distacco dagli allievi, non perché non li apprezzasse nella giusta misura, ma perché sentiva e faceva loro capire chiaramente che egli era e si sentiva superiore. Per lui non fu mai attuale quanto si dice comunemente di un Maestro che si vanta di potere «mettere in cattedra quando vuole un allievo». Ripensando a tutta la sua vita si può oggi riconoscere che accettò che la forza delle cose, l’interessamento degli amici e dei colleghi suoi estimatori accompagnassero qualche suo allievo di volta in volta alla cattedra, ma spesso solo con il suo silenzioso consenso. Fu così o quasi, almeno si racconta, per un concorso di Cattedra di Chirurgia a Siena; fu così per un concorso a Milano, oggetto di furiosa gara di appetiti per l’assegnazione di un ruolo per l’Anatomia Chirurgica, di cui proprio io avevo riesumato la tradizione della copertura del ruolo dopo le dimissioni di Ciminata. Alla seduta di Facoltà nella quale si sarebbe discusso l’assegnazione di questo ruolo chirurgico non volle partecipare, impegnandosi in prima persona in un programma operatorio che lo tenne al lavoro dall’alba al tramonto, programma preparato naturalmente da lui personalmente. Fu in quell’occasione che mi sentii improvvisamente e disperatamente obbligato, almeno sul piano morale, nel richiedere per lui assente il ruolo di Anatomia Chirurgica avendo io il pensiero fìsso rivolto ad un allievo degnissimo, che aveva lasciato l’Istituto dei Tumori di Milano e la famiglia per seguirlo a Siena,e che verso di lui nutriva e manifestava sollecitudine ed obbedienza assolute, rispetto illimitato, dedizione totale e convinta, continuità di interessi scientifici. Quando rientrai al Policlinico dopo la seduta, gli andai ad annunciare che avevo portato a casa per lui un ruolo chirurgico, sollevò il viso mascherato dall’addome del paziente nel quale stava facendo una delle sue solite vagotomie, mi guardò un attimo, forse imbarazzato, e sussurrò: «ti ringrazio, Walter carissimo, mi ero dimenticato che questo problema fosse all’ordine del giorno della Seduta di Facoltà; in fondo Bissi è un bravo «fìoeu» ed hai fatto bene a ricordarti di lui».

I suoi contributi sulla chirurgia dell’ulcera gastrica e duodenale e quella sulla Colite Ulcerosa e sul Morbo di Crohn furono considerati da lui di interesse fondamentale. Coadiuvato da Giuseppe Peri, uno dei suoi allievi che si può dire davvero fosse da lui prediletto, la vagatomia trovò una sua precisa sistematizzazione, così come il Manuale di Semeiotica Chirurgica trovò, anche grazie e soprattutto alla collaborazione del Peri, la sua prima edizione. Al suo passaggio fuori ruolo, nel 1980, prese parte viva alle varie vicissitudini di Facoltà in favore dell’aspirazione alle sue strutture, quelle del Padiglione Monteggia, del collega ed amico Gianfranco Pellegrini, allievo di Trivellini. Alla fine di una lunga competizione, a dire il vero del tutto pacifica ma vivace, in Facoltà prevalse invece il mio nome ed a me andò la designazione della Facoltà a successore nella direzione dell’Istituto di Gallone. Del suo insuccesso nel patrocinare un altro collega non se ne fece affatto un cruccio: si giustificò subito con me liquidando il problema del suo atteggiamento negativo nei miei confronti come dettato da un vecchio, naturale e giustificato risentimento contro il mio Maestro Oselladore che, a suo dire, aveva ritardato per anni la sua chiamata a Milano «insistendo troppò», mi ribadì Gallone, «nel favorire le analoghe aspirazioni del suo Pezzuoli, molto più giovane di me di carriera ». Dal primo novembre del 1980 diventai un suo amico ed un suo confidente; mi riconobbe subito pubblicamente come il continuatore della sua Scuola, verso gli allievi della quale ho fatto sempre, come molti riconoscono, quanto era in mio potere e forse spesso qualcosa di più. Rompendo una «certa» tradizione milanese per la quale il Maestro che passava fuori ruolo non aveva più diritto «di ospitalità», nemmeno in una stanza, nemmeno l’accesso alla biblioteca — per Oselladore era stato imposto così — lo volli presente ed attivo nel «suo» Padiglione. Fu invitato a scegliersi personalmente lo studio, gli arredi, le suppellettili, la segretaria, i telefoni, l’accesso ai fondi dell’Istituto che ero passato a dirigere; per tutti gli anni del suo quinquennio di professore fuori ruolo fu ospitato, riverito, onorato e soprattutto rispettato. Per lui il mio studio, che ebbe sempre la porta aperta a tutti e per tutti, fu il luogo di incontri ravvicinati durante i quali ci ricordavano i nostri Maestri ed altri personaggi delle chirurgica italiana: solo o accompagnato da Selene fu sempre considerato il «Maestro». Gli fui successore anche nella presidenza della Sezione Italiana del Collegium Internazionale Chirurgiae Digestivae ed «in suo onore» organizzai un riuscito congresso internazionale a Milano nel quale fu, anche da professore fuori ruolo, il presidente ed un protagonista attivo. Nella prima e nella Seconda Settimana Mondiale di Aggiornamento in Chirurgia a Milano, 1988 e 1990, Gallone ebbe un grande spazio scientifico, sedute importanti da presiedere ed ogni altro onore. Un «galletto» in argento ed in bronzo è forse ancora uno dei fermacarta che si possono trovare sui tavoli di lavoro di molti chirurgici italiani; ideato da un suo allievo, Nando Zennaro, gliene fu consegnato un esemplare in oro. Mi passò negli anni la direzione di alcune delle riviste da luì dirette, mi consigliò poi di associarmi pure il Prof. Piero Pietri da lui considerato un amico, quasi un discepolo, ed infine mi suggerì anche il Prof. Alberto Peracchia. Per me se ne è andato, forse, con due soli rimpianti: Selene, sua moglie che amava molto, ed il manuale di patologia chirurgica, al quale stava lavorando per la sua «settima» edizione, che lasciava così incompiuta agli studenti. Mi accolse sempre nel suo rifugio di Via Chiossetto come un fratello minore, mostrò di gradire la presenza di mia moglie Lola della quale apprezzava la cordialità e l’affabilità e l’affettuosa amicizia che la legava a Selene; mi seguì con i suoi consigli nell’ultima parte della mia carriera ed approvò e condivise i miei sforzi tendenti a fare accogliere dalla Facoltà la disponibilità di Alberto Peracchia a diventare, al Padiglione Monteggia, il mio ed il suo successore. «È un chirurgo digestivo come noi», disse subito quando affrontammo per la prima volta questo delicato problema, è un chirurgo «internazionale», è un giovane intelligente e preparato e soprattutto è un milanese: conoscevo suo padre. È giusto che tu lo aiuti a rientrare a casa, come hai aiutato con tanto successo il rientro di Pezzuoli a Milano e qualche anno dopo quello di Pietri. Peracchia è anche lui in fondo un allievo di Oselladore, e quindi, si può dire, è un allievo anche di Fasiani. È uno dei nostri, è della nostra famiglia. Anch’io spenderò qualche parola per lui, «per quanto valga ancora il mio parere». «A missione compiuta in fervida ed assidua difesa della vita e dei valori ideali» stava scritto nel necrologio della famiglia che annunciava la sua scomparsa; «missione compiuta felicemente e con successo», aggiungo io nel constatare che il suo ricordo vive con noi ed in tutti gli allievi e tra i tanti estimatori di una grande Scuola chirurgica, quella milanese.